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APPUNTI
PER LA PROSSIMA VOLTA
CHE MORIRÓ

Non vorrei crepare
Prima di aver gustato
il sapore della morte.
Boris Vian

Appena entrato in casa non mi accorsi subito di quell’uomo. Anzi. Feci tutte quelle cose che sono solito fare. Tolte le scarpe collegai l’ipod allo stereo che iniziò a suonare una canzone, non ricordo quale, di Johnny Cash o di John Lennon. Mi tolsi le giacca, accesi il computer, preparai un piatto e così’ via. Dopodiché, entrato in camera, vidi che era seduto, sul pouf, quello che prende la tua forma quando ti siedi; quello che Nicola mi regalò per il matrimonio. Lui era seduto lì. Benchè ebbi un soprassalto di spavento vedendolo, non ne fui così’ sorpreso, come se in qualche modo fosse del tutto naturale trovarmelo lì. Era un uomo di grosse proporzioni, albino, vestito impeccabilmente, ma come fosse appena sceso dalla barca a vela, giubbotto giallo Henry Lloyd, bermuda bianche e Todt’s, senza calze.
Mi sorrise.
“ Buonasera”, dissi educatamente.
“Ti stavo aspettando”, lo sentii rispondere, con voce ferma, di velluto.
“Beh, eccomi qua”.
Lui mi sorrise di nuovo.
“Ebbene?”, chiesi.
“Me lo devi dire tu?”
“Non saprei proprio cosa dire, francamente…”
“Non ti sembra il momento di smetterla con le finzioni?”
“Probabilmente si, ma non so di cosa parli”.
“ Smettila. E’ ora che tu smetta di sognare e faccia quello che ci si aspetta da uno nella tua condizione”.
“Non credo di capire”.
“ Stai sognando una vita che non stai vivendo, forse lo hai perso di vista, affezionato come sei al tuo sogno di vita, ma è dal 1992 che stai sognando”.
Lo guardai con un’espressione vuota, come se in realtà non esistesse.
Presi l’aspirapolvere da sotto il letto, deciso a sbarazzarmi dei riccioli di polvere che vedevo intorno, più che altro cercando di fare qualcosa di concreto. Ma prima di avere il tempo di accenderla, l’uomo continuo’.
“ A Lione, non ricordi? Alla stazione di Fourviere, appena arrivata la metropolitana, ti sei buttato sotto. Da allora sogni. Non ti rendi conto che è dal 1992 che non sei più triste? Non ti accorgi che è tutto finto, che sogni quello che vuoi?”
Sbuffai, quell’uomo cominciava ad irritarmi. Mi voltai per non vederlo e casualmente mi riflessi nello specchio del comò della mia camera. Vidi la mia faccia, i miei lineamenti, ma ero albino, la pelle bianchissima, i capelli così chiari da essere bianchi, gli occhi quasi rossi, le sopracciglia come se non ci fossero. Ero albino, come quell’uomo.
Possibile che non me ne fossi mai accorto?
È vero che a Lione il pensiero di morire di mia propria mano mi aveva sfiorato, come capita, talvolta.
“Ma io ricordo tutto di quel ’92 e ricordo tutto quel che è successo dopo. Tutta la vita che ho fatto, tutti i fatti, le gioie, le delusioni. Di cosa stai parlando? Non è vero che da allora non sono più stato triste…”
“Guardati allo specchio. Ti vedi?”
“Sono albino”
L’uomo sorrise a mezza bocca e scosse la testa.
“No. Sei morto.”
A quel punto non riuscii più a trattenere la mia irritazione e facendo finta che quell’uomo non esistesse, gli volsi le spalle e accesi l’aspirapolvere e con furia la passai in tutta la casa. Finché non c’era più un solo granello di polvere. Non contento, pulii il bagno, la vasca, il lavandino, le mattonelle, con una determinazione di cui non mi credevo capace. Quando tornai nella mia camera da letto per riporre la scopa elettrica, l’uomo era scomparso. Sorrisi come se avessi vinto. Pensai, “Durante questi anni ho imparato a parlare inglese, come avrei potuto da morto.” E sorrisi di sollievo e con franca allegrezza. Anche se riflesso nello specchio continuavo a vedermi albino. Senza dargli troppo peso, almeno per il momento.
Improvvisamente mi venne voglia di telefonare a mia madre, tanto per sentire la sua voce e in qualche modo puntellare la certezza di essere effettivamente in vita.
Il suo telefono era staccato e il telefono di casa, non dava risposta, neppure la segreteria. Provai con mia nonna e anche lei non rispose, ma è sorda, è comprensibile.
Mio fratello aveva il telefono staccato e tutte le volte che tentai di raggiungere mia moglie in Africa la linea era occupata. Provai a non pensarci.
Ma mi tornava il dubbio che gli avvenimenti della mia vita fossero irreali, il risultato di un sogno che non puoi controllare, ma che in qualche modo direzioni.
Sono sposato? Mia moglie sta in Africa?
Mentre la musica proseguiva struggente, tornai al mio piatto.
Dovevo liberarmi da quel tarlo, anche se ogni volta che provavo a razionalizzare mi veniva da ridere di fronte all’assurdità di questi dubbi.
Avevo ricordi vivi, profondi e le mie sensazioni erano altrettanto reali.
Eppure.
Tornavo allo specchio ed ero sempre albino, la pelle diafana.
Dovevo ad ogni costo capire se ero ancora vivo oppure no.
Cominciai a non mangiare, se davvero ero morto non avrei dovuto sentire fame, poteva essere solo un abitudine. Dapprima dovetti farmi forza per dimenticare i crampi del digiuno, poi a poco a poco passarono e mi accorsi che potevo fare a meno del cibo. Decisi anche di smettere di provare a chiamare i miei famigliari o i miei amici. Volevo vedere se qualcuno mi cercava. Nessuno chiamò.
Continuai ad uscire tutte le mattine a comprare il giornale, quindi chiedendomi da dove provenissero i miei soldi, smisi.
Rimasi chiuso in casa. Non facevo altro che fare le pulizie. Cominciai a realizzare che tutti gli indizi finivano per dare ragione al mio misterioso interlocutore.
Quindi ero morto davvero? E come dovevo comportarmi nel mio nuovo stato. In effetti non avevo nessun desiderio, se non una vaga commozione pensando a mia moglie, in Africa. Ma era assurdo, perché essendo morto non ero neppure sposato e quella che credevo mia sposa, stava vivendo da qualche parte la sua vita, avendomi già pianto come amico molti anni prima.

Dunque ero morto.
E ora? Cosa dovevo fare? Subito mi venne da pensare la situazione da un lato positivo, ciò che più avevo temuto in vita era passato, in modo piuttosto indolore, anzi in realtà non me ne ero neanche accorto. Ora non avevo più nulla da temere.
Tutto qui? E questa solitudine era la mia condanna? Aveva forse ragione papa Woytila quando diceva che l’inferno esiste, ma è vuoto. Ecco, ora ci sono io.
Ed è uguale a casa mia, con le mie cose, tutte quante, anche la televisione, ma nessun altro, io e basta.
Allora l’inferno è questo, io e basta.
Ora che ero morto mi sentivo come una scarpa senza piede, un vestito senza uomo.

Dunque ero morto, mi aggiravo per casa spolverando i mobili, lavando i palchetti, sbattendo i tappeti, perché’ non riuscivo a tollerare neanche il minimo granello di sporcizia, ma ero defunto, deceduto, trapassato.
Evitavo di guardarmi allo specchio, ora che sapevo come sono fatti i fantasmi, gli ectoplasmi, ora che sapevo che sono albini. Ma pur cercando non riuscivo ad evitarmi, foss’anche una fugace sbirciatina con la coda dell’occhio. Dunque tappezzai tutti gli specchi di casa e financo i vetri che potevano riflettermi, con i fogli di giornale. Pensavo che qualcuno prima o poi sarebbe arrivato a vivere in questo appartamento ed allora sarei stato proprio come uno di quei fantasmi dei castelli scozzesi. Fin d’ora decisi di non farmi scappare l’occasione di far cigolare le porte nel cuore della notte, produrre rumori di catene, sibili licenziosi e altre stranezze assortite, ci sarebbe stato da divertirsi in fin dei conti. Non era male essere morti, il fatto era che non era tanto diverso dall’essere vivi. Ma se pensavo alla mia vita e cercavo di convincermi a fare un bilancio, vedevo poche cose o forse nessuna, insomma una vita piuttosto inutile. Anche se, mi giustificavo, sono stato vivo solo fino al 1992, contando dal ’67 non è un molto, non ho avuto tanto tempo. D’accordo: Alessandro Magno, Mozart, Rimbaud e tutta quella gente a 25 anni aveva già fatto tutto, ma erano altri tempi. Inoltre, tutto quello che ho fatto dal ’92 ad oggi mi è stato cancellato, come un record non omologato, un goal in fuorigioco, un tempo scaduto. Un vero colpo basso. Come essere licenziati senza essere avvertiti, andare a lavorare e a fine mese non prendere lo stipendio.
Ammetto che anche nel mio sogno non è che avessi fatto cose strabilianti.
Lo avessi saputo avrei cercato di impegnarmi di più, che so avrei cercato di sognare di diventare l’uomo più ricco del mondo o che so io, qualcosa di eclatante.
Invece una vita normale, o quasi. Con pochi successi e qualche soddisfazione. Credevo di aver visto una buona parte del mondo, o di sperimentare qualcosa che la maggior parte dei miei coetanei non sperimentava e in effetti, inconsapevolmente, avevo ragione. Credevo di vivere ed ero morto.
Ancora non mi va giù, mi sembra di essere stato truffato, vorrei fare reclamo.
Adesso che succederà? Forse è solo un periodo, la camera di decompressione dalla vita alla morte, dalla corporeità allo spirito.
Forse adesso che lo so, dovrò scomparire, diventare uno spirito, confondermi con tutti gli spiriti di quelli morti prima di me. Forse è così per tutti. Si muore, i tuoi cari ti piangono e tu invece credi di essere ancora vivo e credi di vivere la tua vita di sempre per una quindicina di anni, pressappoco. Finché un giorno, uno strano individuo albino scende dalla sua barca a vela con il suo Henri Lloyd e ti dice che sei morto. Tu non ci credi e ti vedi albino, provi a telefonare e nessuno ti risponde, allora capisci che è vero.
Immagino mio nonno. Ricordo un attimo prima del suo ultimo respiro ci dice, andate, andate a mangiare, che per mangiare c’è sempre tempo. Poi muore, noi, disperati, piangiamo e intanto lui sta sognando di dirci altre spiritosaggini. Poi sogna di guarire da quell’ospedale, tornare a casa, scherzare con sua moglie, uscire per fare ginnastica ai giardini e tornare a casa ed obbligare la nonna a guardare un film western. E continua a sognare la sua vita, fino all’arrivo del messaggero. Beh, non e’ male, e’ ingegnoso.
A parte il particolare dell’albino, non e’male.

Ora so che non ci sono più, è già qualcosa. Quello che non sopporto è l’idea di non essere riuscito a vedere il mio funerale. Quanto ci avrei tenuto! Ho sempre immaginato di guardare la cerimonia delle mie esequie, ovviamente con una visuale dall’alto e vedere un sacco di gente, tutti coloro che avevo conosciuto, tutti i miei contatti di Facebook e nessuno che si era dimenticato di me, tutti quanti concordi nel ritenermi un uomo eccezionale, uno che così è difficile che nasca di nuovo, tutti a piangere e tutti a provare rimorsi per quanto avrebbero potuto fare e non avevano fatto. Invece nulla, non avevo potuto godermi la mia festa. Come essere assenti al proprio matrimonio, più o meno.
Mi era stata negata la soddisfazione di vedere chi mi voleva realmente bene o chi scherzava o addirittura rideva in un momento cotanto tragico. Mi consolava il fatto che durante questo periodo, (temporaneo, definitivo?) in cui ero confinato in casa e in qualche modo ancora corporeo potevo compiere azioni terrene. Quali, ad esempio, scrivere al computer e lasciare testimonianza del passaggio. Cosicché una volta per tutte si sarebbe saputo in maniera definitiva come e cosa succede dopo aver lasciato la vita. Sempre ammesso che anche queste mie note non fossero frutto di un sogno e che persino il computer fosse soltanto nella mia immaginazione.

Alzo gli occhi dallo schermo, mi stropiccio gli occhi e vedo che il velista albino è di fronte a me, la porta d’ingresso aperta.
“Andiamo?” mi dice.
“Andiamo…”. Mi guardo indietro, “devo prendere qualcosa?”, aggiungo.
Lui mi guarda con un sorriso, come se avessi fatto una battuta.